“L’era dell’accesso” è per i ragazzi l’unica esistenza possibile. Intervista all’Avv. Andrea Lisi in occasione del Safer Internet Day

Tecnologia sempre più al servizio della persona e rischi correlati, alfabetizzazione digitale in Italia e rischi della rete, per gli adolescenti ma anche per gli adulti. Senza dimenticare il delicato rapporto tra la condivisione di foto, dati video, pensieri e informazioni e la privacy. Di questo ed altro l’agenzia Dire ha parlato con il presidente di Anorc Professioni, avvocato Andrea Lisi, in occasione del Safer Internet Day, che si celebra oggi.

Uno scenario che comporta grandi possibilità, ma anche dei rischi, che potrebbero essere scongiurati sia con il diffondersi della cultura digitale sia con un’accelerazione, necessaria, ma non per questo scontata, dei processi normativi chiamati a regolare l’infinito orizzonte che il progresso tecnologico ha aperto.

Sono solo alcuni dei temi che verranno affrontati venerdì 11 febbraio durante il primo evento targato D&L NET, il network professionale, fondato e coordinato dall’avvocato Andrea Lisi, che a oggi conta più di 50 professionisti.

D. Presidente Lisi, oggi la tecnologia ci semplifica la vita, penso alle app, ai servizi online, ma anche ai dispositivi IOT con cui stiamo arredando le nostre case. Strumenti utili per accendere le luci o chiudere le tapparelle senza sforzo, ma a quale prezzo? Quali sono i rischi? E sono rischi che corriamo consapevolmente o no?

A. “La premessa è giusta: sono strumenti e come tutti gli strumenti vanno correttamente utilizzati. L’unico modo per usarli in maniera corretta è renderci consapevoli delle opportunità, che sono tantissime, e molte volte lo storytelling che caratterizza questo tipo di strumenti è sicuramente superiore nella sua forza evocativa rispetto a quelli che sono i rischi. Una vita comoda, in una smart city, all’interno di una autovettura che ci propone il viaggio e magari ci favorisce anche nella possibilità di autoguida, quindi una autovettura che ci guida a casa, una casa che ci accoglie con il frigorifero già pieno, con la luce che si accende, insomma una serie di comodità che vivono per noi tutta la nostra esistenza comporta una condivisione di tante abitudini, una profilazione costante che ci riguarda e un insieme di dati che vengono regalati continuamente ad altri soggetti. Il problema è tutto qui. Per evitare che la nostra esistenza venga controllata completamente, che sia sottoposta ad attacchi continui da parte di hacker o semplicemente di altri – che non è detto perseguano i nostri interessi- il trucco è formarsi correttamente, avere una consapevolezza costante su tutto ciò che vogliamo concedere e, quindi, bloccare questo processo anche attraverso normative che l’Unione europea ci sta regalando. Bisogna quindi fidarsi di più dell’Authority, non vivere la protezione del dato come un fardello burocratico ma, invece, rendersi conto che queste normative servono a tutelare diritti e libertà fondamentali che ci riguardano”.

D. Presidente Lisi, tutti gli anni esce fuori un vademecum con le buone pratiche da utilizzare in rete, ma senza un’operazione di educazione digitale fatta in maniera continuativa rischia di essere carta straccia. Perché in Italia siamo ancora così ‘ignoranti’ a livello digitale?

A. “Beh, probabilmente stiamo utilizzando i metodi sbagliati. Il fatto che i vademecum siano scritti ancora in una modalità arcaica, magari simili alla carta, in un mondo che è totalmente digitale, fatto di comunicazione molto più veloce, con pochi messaggi che però devono arrivare al cuore della gente, alle emozioni, probabilmente è un argomento che non è stato studiato attentamente. Poi, come dicevo prima, l’Authority che vigila sulla protezione dei dati personali sta cercando in tutti i modi di formarci, ma non sempre recepiamo questo messaggio in maniera positiva, anche perché la politica si è messa di traverso. Abbiamo vissuto uno scontro istituzionale tra il governo, che in qualche modo, anche per tutelare la nostra salute, ha voluto imporre una condivisione di dati tra pubbliche amministrazioni e anche tra queste e grandi player, e non è detto che costoro perseguano gli interessi istituzionali che sono alla base di queste scelte. E quando il Garante ha provato a puntare un po’ i piedi, a dire “attenzione, bisogna seguire anche il Regolamento generale sulla protezione dei dati” (il GDPR) è stato recepito in maniera molto negativa, anche criticato in maniera forte da politici e opinion leader. Tutto questo mette a rischio quel processo di consapevolezza e di alfabetizzazione che dovrebbe caratterizzare la materia. Anche un coltello può essere uno strumento utile per tagliare la carne o per fare un insieme di attività che riguardano la nostra quotidianità. Ma se non viene usato correttamente, quindi non dal manico ma dalla lama, ci tagliamo. Peggio ancora può essere utilizzato per uccidere qualcuno. Quindi, è chiaro che gli strumenti devono essere seguiti da una corretta opera di alfabetizzazione informatica per i cittadini, prevista dalla stessa normativa, che dovrebbe fare non soltanto il garante ma anche le televisioni pubbliche. Spesso, però, le trasmissioni che si occupano di digitale in Italia sono confinate a mezzanotte, come avviene con gli speciali televisivi condotti da Barbara Carfagna. E spesso quegli speciali sono troppo tecnici. Li guardiamo noi tecnici, li capiamo ma sono strutturati in maniera tale da non essere facilmente percepiti da tutti. Invece l’alfabetizzazione deve essere semplice, strutturata in modo da essere comprensibile e in modo che tutti capiscano da quale parte si trova il manico del digitale e da quale altra parte c’è, invece, la lama”.

D. Avvocato Lisi, quali sono i maggiori rischi in cui un adolescente può imbattersi durante la sua vita online? E i rischi che corre un adulto online sono gli stessi che corre un adolescente?

A. “I rischi sono sostanzialmente gli stessi, soltanto che per un adolescente sono amplificati. È chiaro che un adolescente è nato con il digitale e non percepisce neanche la cesura che noi abbiamo avvertito tra mondo analogico e mondo digitale. Noi adulti siamo vissuti nel mondo analogico, ci siamo resi conto di tutti i passaggi, anche di quelli dal modem analogico al modem digitale. Non abbiamo più neanche bisogno di subire quella cesura, siamo sempre digitali. Noi oggi per vivere la quotidianità della strumentazione informatica o per l’utilizzo dello smartphone in tutte le sue app, di fatto dobbiamo cedere in continuazione dati e regalare la nostra identità digitale, perché altrimenti non sopravviviamo nel mondo digitale. Noi abbiamo subito e avvertito questo tipo di processi, mentre un ragazzo che nasce oggi, un bambino, un giovane di 16 anni non ha vissuto tutti questi processi e quindi vive il digitale con questa era dell’accesso immaginata da Jeremy Rifkin, almeno una decina di anni fa nel suo libro ‘L’era dell’accesso’. E questa era dell’accesso non è percepita dai ragazzi come una novità, ma come l’unica esistenza possibile e ciò rende naturalmente la percezione del pericolo meno avvertibile ed immediata. Come rischi, loro vivono un ecosistema digitale che acquisisce dati in continuazione, con la presunzione di regalarli, ma in verità è una presunzione fittizia, quella che io definisco una ‘gratuità pelosa’, perché dietro quei dati c’è invece chi li sta macinando, li sta mercificando e li sta utilizzando all’insaputa dei malcapitati, che siamo tutti noi. È chiaro che un adulto regala un po’ meno, si rende conto, qualche volta ha un po’ di paura, ma è una paura positiva. Il giovane, il ragazzino, invece, vive il digitale come una opportunità e non avverte il pericolo e tutto questo, naturalmente, può costituire un grande problema”.

D. Condivisione è una delle parole chiave per l’interazione sulle piattaforme social. Un’esigenza che ci porta a postare foto, video, pensieri e informazioni online senza pensare troppo alle conseguenze immediate e future. Come si possono mettere insieme condivisione e privacy?

A. “Intanto l’ex presidente dell’autorità garante per la protezione dei dati, Antonello Soro, nella sua ultima relazione prima del passaggio di consegna al professor Stanzione, oggi l’attuale presidente dell’Authority, disse che ‘tutto ciò che mettiamo online resta e rischia di restare per sempre’. Noi non abbiamo la percezione di tutto questo, pensiamo invece che nel mondo online tutto sia breve e che ciò che mettiamo in rete subito dopo venga cancellato, posizionato in basso nel motore di ricerca. Anche su Facebook mettiamo foto con la sensazione che poi quelle stesse immagini verranno dimenticate. In verità, invece, quelle foto vengono aggregate da intelligenze artificiali, profilate, per costruire di fatto dei nostri Avatar perfetti che ci seguono nella nostra navigazione online. Noi non abbiamo tale percezione e questo può comportare anche delle distorsioni della nostra esistenza. Conoscendoci abilmente, le intelligenze artificiali possono anche manipolarci facilmente; quindi, distorcere anche la visione online che gli altri hanno di noi. In più, tante volte, quando immettiamo in certe reti le nostre immagini pruriginose, immagini voyeuristiche, immagini che in qualche modo ci illudiamo siano intime, molto spesso perdiamo il possesso delle stesse, che vengono acquisite in altri circuiti del ‘deep web’, quindi tutta quella parte del web nascosta e segreta dove quelle immagini vengono riutilizzate, entrano in gruppi terribili, tante volte sono immagini di bambini, vengono minuziosamente acquisite, riaggregate e modificate. C’è, dunque, tutta questa parte del web che è contaminata, che è poco conosciuta e che, invece, andrebbe conosciuta e che rischia naturalmente di esporci, e di esporre soprattutto i più piccoli, a rischi altissimi. Tutto questo si può combattere soltanto avendo una percezione reale di quello che è il web: è utile, è positivo, ma è bene inserire nel web solo ciò che veramente può essere inserito, cioè ciò che vogliamo che sia inserito, con la consapevolezza che quello che mettiamo online tendenzialmente rimane lì per sempre ed è difficile da cancellare”.

D. Presidente Lisi, chiudiamo con un consiglio. Lei a quale età permetterebbe a un/a ragazzo/a di accedere alla rete?

A. “Prendo come età di riferimento quella del GDPR, che prevede minimo 16 anni. In verità, però, gli Stati membri possono anche abbassarla, non superando i 13 anni. Il nostro stato, nel codice della protezione dei dati, ha fissato l’età minima a 14 anni, che può anche andare bene. Un quattordicenne ben alfabetizzato a scuola e dai suoi genitori potrebbe essere consapevole dei rischi e delle opportunità e quindi dare pieno consenso, consapevole e informato, sui dati che altri possono trattare. Il problema, da quello che posso avvertire, è però che questo tipo di alfabetizzazione ancora non c’è stato. Oggi le scuole non regalano ai nostri giovani una buona educazione civica digitale. Non basta pensare che i giovani conoscano più di noi adulti lo strumento digitale, perché è vero che lo conoscono di più, è vero che sono più smaliziati, è vero che sono su tutti i social. Però, una cosa è l’usabilità, una cosa è l’accessibilità, altra cosa è la consapevolezza. Una consapevolezza che deve essere di diritti e doveri nell’utilizzo dello strumento digitale. Una incredibile opportunità che può generare anche rischi altissimi per la personalità stessa del minore. Un minore di 14 anni può effettivamente essere già consapevole del rischio se siamo noi ad averlo reso consapevole. Quindi, quell’età fissata dal codice della protezione dei dati potrebbe essere anche corretta se ci fosse tutto ciò che la nostra normativa prevede e che, però, non sempre stiamo mettendo in pratica. Ci vuole una buona educazione civica digitale, favorita dalla politica, favorita dal sistema paese, che parta dalla famiglia per poi arrivare nella scuola. E  oggi ancora tutto questo processo, devo dire, fa fatica ad essere alimentato, anche perché non c’è una corretta percezione del problema”.

[Intervista realizzata da Francesco Demofonti –  a cura di Agenzia di Stampa DiRE]