Senso e sensibilità della trasformazione digitale

Vi presentiamo l’intervista realizzata da Roberto Reale, Project Manager presso l’Agenzia per l’Italia digitale, all’indomani del DIG.Eat XII,  che vede come protagonista l’avv. Andrea Lisi, Presidente di ANORC Professioni.
Un confronto aperto sul digitale, che parte da un’analisi delle sfide e delle criticità maggiori nel governo, abbracciando gli aspetti culturali ed etici della salvaguardia del patrimonio digitale, per riabilitare al centro di questo processo di trasformazione l’intelligenza umana e l’importanza del lavoro dell’uomo.

Di seguito la versione italiana dei contenuti emersi nel corso dell’intervista.

[La versione inglese è consultabile direttamente dal Blog di Roberto Reale al seguente link]


1. Quali sono le sfide e quali le criticità maggiori nel governo della trasformazione digitale in Italia?

Come mi capita di ripetere da un po’ di tempo, la criticità maggiore è oggi quella di avere una visione eccessivamente “tecnocentrica”. Il digitale deve essere avvertito come uno strumento a disposizione del Sistema Paese e non può essere posseduto solo dalle mani di pochi “guru” del settore. Altrimenti, il rischio è che si crei una sorta di doppio binario nella PA. Il mondo degli informatici che detengono le chiavi della digitalizzazione e il mondo dei burocrati che non accettano di aprire quella porta, anzi fanno di tutto per richiuderla. E paradossalmente hanno ragione questi ultimi. Il digitale come strumento di innovazione deve essere inserito in un trasparente processo di semplificazione dei procedimenti amministrativi.

Questo vale ovviamente a maggior ragione nella PA, ma anche nel mondo privato: i “casi di successo” hanno trasformato prima di tutto processi e procedimenti, solo dopo è arrivata la tecnologia a sorprendere e facilitare il cambiamento. Del resto, così è stato con la stessa fatturazione elettronica che sta rivoluzionando l’intero processo di acquisto di enti pubblici e privati: non si tratta solo dell’adozione del documento “fattura” che ha cambiato formato. E ovviamente dietro questi cambiamenti ci vuole una rivoluzione culturale che generi consapevolezza diffusa non solo nei tecnici informatici, ma in tutti gli operatori, da quelli del diritto a quelli dell’archivio o delle questioni contabili. La vera sfida è non tecnologica, ma nell’alfabetizzazione diffusa e nella formazione specialistica.

Infine, il malessere non deve portare il Sistema Paese a scegliere scorciatoie facili, come ad esempio affidare la rivoluzione ad altri “più bravi”, perché le PPAA non ce la fanno da sole. Le soluzioni a basso costo che annusano di chimere offerte dai grandi player IT sono rischiose e alla fine non fanno altro che costringerci ad affidare il nostro intero patrimonio informativo e documentale a chi già detiene un potere immenso. Forse dovremmo prestare maggiore attenzione a questi passaggi. Bene ha fatto, ad esempio, l’ing. Giovanni Manca a ricordare che esistono soluzioni DTM (Digital Transaction Management) che possano portare le PA a migrare pian piano da un modello di gestione documentale classico a modelli più evoluti  che sempre di più si vanno affermando sul mercato privato mondiale. Queste soluzioni sono in grado di fornire un approccio strutturato, utile per la realizzazione della gestione di interi procedimenti, guardando alla “filiera” che c’è dietro al singolo documento.

 

2. Quali sono i settori del “sistema Paese” maggiormente ancorati a modelli analogici?

La risposta la sappiamo già. Tutti i settori più “burocratici” e legati a procedimenti complessi sono restii al cambiamento digitale. Perché la digitalizzazione rende trasparente l’intero iter procedimentale, mettendo a nudo il modello di gestione che è alla base (qualora ne esista uno) e aprendo quei cassetti che prima erano chiusi e nel cui lucchetto si annidava un sistema di controllo del potere contro il quale era difficile combattere. Una trasformazione digitale che voglia davvero rivoluzionare la vita di un nte pubblico deve mirare ad estirpare alla radice queste incrostazioni, abbattendo i vecchi alibi di chi ha avuto nell’analogico un grande alleato. Il digitale nel momento in cui si incardina in un’azione trasparente di semplificazione e standardizzazione dei procedimenti amministrativi può essere il più grande e importante strumento per combattere la corruzione e l’arretratezza del nostro Paese in maniera trasversale. Non dimentichiamocelo.

 

3. Qual è l’importanza strategica e culturale della tutela delle “tracce digitali” (ad esempio, attraverso la conservazione documentale)?

Partiamo da semplice premessa: perché un dato informativo possa documentare deve garantire corretta identificazione (paternità/imputabilità giuridica), integrità e immodificabilità (quindi autenticità) nel tempo. Solo in questo modo si può garantire affidabilità agli archivi digitali. Ricordiamoci che dall’affidabilità, e quindi autenticità nel tempo, dei nostri archivi dipende il nostro stesso concetto di Stato democratico. Solo dalla corretta gestione e conservazione delle nostre “tracce digitali”, specie in un contesto liquido come quello digitale, può dipendere la costruzione e l’integrità della nostra stessa identità su diversi livelli, lavorativa, istituzionale, patrimoniale, personale.
Senza la corretta conservazione nel tempo dei nostri dati, delle nostre informazioni, tutto ciò che ci appartiene potrebbe essere messo in discussione, compresa la nostra stessa identità. Come sosteneva già lo stesso Stefano Rodotà, in passato si diceva: “Io sono quello che dico di essere”. Oggi, siamo quello che Google dice che siamo. Siamo sempre meno persone, sempre più profili.

 

4. Sei il fondatore di un’associazione che riunisce centinaia di professionisti del digitale in Italia. Ritieni che l’intelligenza artificiale sarà mai in grado di rendere irrilevante il lavoro dell’uomo?

Io credo che l’innovazione vada sempre alimentata e indirizzata dall’intelligenza umana. Oggi ho paura per l’intelligenza umana che si va deteriorando, non per la mancanza di posti di lavoro “fisici”. Ogni rivoluzione ha fatto paura e ha generato timori simili che si sono sempre rivelati infondati. Quindi anche la rivoluzione digitale potrà farci vivere meglio, ma sta alla nostra intelligenza capirlo e gestire (noi) questo cambiamento. Le frontiere dell’IA sono ancora inesplorate e affascinanti. C’è chi dice che ci libereranno dagli avvocati!
Parlando dalla prospettiva di questa professione (a cui sono onorato di appartenere), in realtà non esistono frasi non interpretabili o esatte in senso assoluto se non sono analizzate con creatività in un determinato contesto. A questo serve (e sempre servirà) l’interprete “umano” che analizza il dato. A livello di analisi dei dati una IA ci sostituirà a breve, ma a livello interpretativo e “di indirizzo” nulla potrà sostituire (almeno per adesso) una mente umana. Del resto, una mente illuminata come quella di Renato Borruso durante una cena mi disse: “tutto è interpretabile e relativo, anche un “Ti Amo”. A seconda del contesto e a chi è rivolto (persona o animale) può significare qualcosa di completamente diverso”.

 

5. Impossibile non parlare del tuo lavoro e del tuo modello di divulgazione del digitale. Come è nata l’idea del DIG.Eat? Come riesci a tenere insieme contenuti e intrattenimento?

Questa domanda la voglio collegare a quella precedente. La creatività dovrebbe animare qualsiasi rivoluzione e/o processo di innovazione. Ovvio che alla base ci devono essere studio e capacità di approccio multidisciplinare (mai come in questi giorni). Ma ci possiamo illuminare solo attraverso processi creativi, ciò che alla Macchina è attualmente impedito. Del resto i Pink Floyd hanno garantito qualità del suono, con una visione creativa che abbracciava più arti. In questo modo forse il lato oscuro del digitale (che c’è e lo sappiamo) può essere illuminato grazie a processi trasparenti e guidati da menti consapevoli.
Provo a realizzare tutto questo, nei settori di cui mi occupo, con caparbietà ogni giorno.

E a volte ci riesco!