Intervista a cura del Dott. Alessandro Selam, Direttore Generale di ANORC – Associazione Nazionale degli Operatori e dei Responsabili della Custodia dei contenuti digitali, all’ Avv. Daniele Minotti, esperto in Diritto penale delle nuove tecnologie.
Il lockdown e la pandemia hanno portato alla luce una delle tante esigenze del digitale: l’utilizzo delle nuove tecnologie in tutti gli ambiti della Giustizia. Difatti, anche quest’ultima sembra essere stata travolta dall’ondata della digitalizzazione, e come tutti non era pienamente preparata a questo repentino cambiamento.
Per commentare e scoprire qual è la situazione attuale della giustizia, quali sono state le falle e quali lacune sono da colmare, il Direttore generale di ANORC, il Dott. Alessandro Selam, intervista l’esperto in Diritto penale delle nuove tecnologie, l’avv. Daniele Minotti.
La giustizia digitale
Siamo davvero pronti alla rivoluzione digitale della Giustizia?
Non si può dare per scontata la risposta. Come molti operatori del diritto sanno, con la pandemia il processo penale telematico, sino a quel momento soltanto abbozzato e, di fatto, riservato ai soli uffici giudiziari, ha avuto un’accelerazione eccezionale. Ciò, soprattutto, perché nell’intenzione del legislatore la telematica avrebbe funzionato come una vera e propria forma di distanziamento. E ciò è puntualmente accaduto: durante il lockdown i tribunali si sono svuotati, molte udienze sono state rinviate d’ufficio e il personale è stato sollecitato allo smart-working (peraltro, con mille dubbi sulla sicurezza dei dati personali – peraltro di rilevanza penale – contenuti nei fascicoli portati a casa dei dipendenti).
Come, realmente, si sono celebrate le udienze e in che modo si sono espletate le attività processuali?
Al di là delle forme di deposito telematico potenziato – mediante PEC o con upload su un apposito portale -, sin da subito si è privilegiata la celebrazione di alcune udienze in modalità telematica, in remoto e non più in presenza. Con conseguente levata di scudi specie dei penalisti che denunciano lesioni del diritto di difesa, considerando il fatto che il difensore non sempre poteva stare a fianco del proprio assistito mentre è, di fatto, resa impossibile una certa interazione con le altre parti, testimoni e consulenti.
E il digitale che ruolo ha avuto?
Si è iniziato a manifestare, strisciando, un gap tecnologico a dir poco imbarazzante. A parte la scelta di piattaforme non open (in contrasto con il CAD), le prima applicazioni di udienze in remoto sono state disastrose, lato uffici giudiziari e lato avvocati, va detto. Non soltanto, dunque, la solita, endemica, italica mancanza di banda, ma anche l’assenza di preparazione e strutture in seno a tutte le categorie di operatori del diritto. Con inevitabile ricaduta sul sistema Giustizia, sui diritti civili.
Si può sostenere, dunque, che il sistema giudiziario è del tutto impreparato, ancora oggi, alla digitalizzazione?
Certo. E lo dimostra una recente sentenza della Corte di Cassazione che si è occupata proprio di un caso di “malfunzionamento” manifestatosi nel corso di un’udienza da remoto.
Davanti al Tribunale di Sorveglianza era stata fissata udienza, in remoto, per discutere sulla concessione o meno della detenzione domiciliare ad un carcerato. Dunque, non poca cosa, non certo un incombente meramente burocratico.
Purtroppo, un malfunzionamento del sistema – non si capisce imputabile a chi o a cosa – aveva reso impossibile la partecipazione del difensore, così prontamente sostituito dal Tribunale con altro difensore, appunto, sostituto. È chiaro che un avvocato chiamato all’ultimo momento a discutere di una materia tanto delicata e caratterizzata da profili altamente soggettivi non è in grado, per quanto capace possa essere, di svolgere la sua nobile funzione. E, a differenza del Tribunale di Sorveglianza, la Suprema Corte ha perfettamente compreso la cogenza di questa nuova forma di impedimento del difensore, annullando il provvedimento impugnato.
Qui il tema principale: quello dell’inadeguatezza tecnologica della Giustizia e, soprattutto, quello dell’inadeguatezza culturale degli operatori del diritto. Ma lo sapevamo già.